di Naomi Kleim, dal num.1028 di Internazionale p.40, 29 novembre 2013, http://www.internazionale.it
La crescita a ogni costo sta uccidendo il pianeta. Sulla base dei loro studi, anche i climatologi sono arrivati alla conclusione che il sistema economico capitalista non è più sostenibile.
Nel dicembre del 2012 l’esperto di sistemi complessi Brad Werner, con i suoi capelli rosa, si è fatto strada tra i 24mila studiosi di scienze della Terra e dello spazio al convegno dell’American geophysical union che si tiene ogni anno a San Francisco. All’evento c’erano nomi importanti, come Ed Stone, del progetto Voyager della Nasa, che ha parlato di una nuova pietra miliare sulla strada per lo spazio interstellare, e il regista James Cameron, che ha raccontato le sue avventure in sommergibile negli abissi del mare. Ma la conferenza che ha fatto più scalpore è stata quella di Werner, intitolata “La Terra è f ***uta?” (il titolo intero era: “La Terra è f ***uta? La futilità dinamica della gestione ambientale globale e le possibilità di garantire la sostenibilità attraverso l’azione diretta degli attivisti”). In piedi di fronte alla platea, il geofisico dell’Università della California a San Diego ha risposto alla domanda usando un modello computerizzato.
Lo scienziato ha parlato di limiti dei sistemi, perturbazioni, dissipazione, attrattori, biforcazioni e altre cose per lo più incomprensibili a chi non è esperto di teoria dei sistemi complessi. Ma la morale era chiara: il capitalismo globale ha reso lo sfruttamento intensivo delle risorse così rapido, conveniente e illimitato che per reazione i “sistemi geoumani” stanno diventando pericolosamente instabili. Messo sotto pressione da un giornalista che chiedeva una risposta chiara alla domanda “siamo f ***uti?”, Werner ha messo da parte i termini tecnici e ha risposto: “Più o meno”.
Tuttavia una dinamica del suo modello offriva qualche speranza. Werner l’ha definita “resistenza”: i movimenti di “gruppi o individui” che “adottano un certo insieme di dinamiche che non si integrano nella cultura capitalistica”. Nel sommario della sua presentazione si legge che questo fattore comprende “l’azione diretta ambientalista, la resistenza proveniente dall’esterno della cultura dominante, come nelle manifestazioni di protesta e nei sabotaggi compiuti dalle popolazioni indigene, dai lavoratori, dagli anarchici e da altre organizzazioni di attivisti”.
Di solito ai convegni scientifici non si lanciano appelli alla resistenza politica di massa e tanto meno all’azione diretta e al sabotaggio. Ma a dire il vero Werner non ha invitato a fare niente del genere: si è limitato a osservare che le rivolte di massa (un po’ come il movimento abolizionista, quello per i diritti civili o Occupy Wall street) rappresentano l’elemento di “frizione” che con più probabilità sarà in grado di rallentare un meccanismo economico sempre più fuori controllo. Come sappiamo, ha osservato lo scienziato, in passato i movimenti sociali hanno “esercitato un’influenza straordinaria sull’evoluzione della cultura dominante”. Quindi è ragionevole affermare che “se pensiamo al futuro della Terra e della nostra relazione con l’ambiente, dobbiamo inserire la resistenza nel quadro di questa dinamica”. Non si tratta, ha affermato Werner, di un’opinione, ma “di un problema geofisico”.
In manette
Molti scienziati sono stati spinti dai risultati delle loro ricerche a scendere in piazza e a passare all’azione. Fisici, astronomi, medici e biologi si sono schierati in prima linea nelle battaglie contro le armi nucleari, l’energia atomica, la guerra, la contaminazione chimica e il creazionismo. Poi nel novembre del 2012 Nature ha pubblicato un editoriale del finanziere e filantropo ambientalista Jeremy Grantham in cui si invitavano gli scienziati a seguire questa tradizione e a “farsi arrestare se necessario”, perché il cambiamento climatico “non è solo la crisi della nostra vita: è anche la crisi dell’esistenza della nostra specie”. Alcuni scienziati non hanno bisogno di farsi convincere. James Hansen, il padre della climatologia moderna, è un attivista formidabile ed è stato arrestato almeno cinque o sei volte per aver opposto resistenza allo spianamento delle vette montuose per l’estrazione di carbone e alla costruzione di oleodotti per le sabbie bituminose (quest’anno lo scienziato ha perfino lasciato il lavoro alla Nasa per dedicare più tempo alla militanza). Due anni fa, quando sono stata arrestata davanti alla Casa Bianca durante una manifestazione contro l’oleodotto per sabbie bituminose Keystone Xl, una delle 166 persone finite quel giorno in manette era il glaciologo Jason Box, un esperto di fama mondiale dello scioglimento dei ghiacci della Groenlandia. “Se non ci fossi andato avrei perso la mia autostima”, mi ha detto allora Box, aggiungendo che “in questo caso votare non basta. Ho bisogno di essere anche un cittadino”. Questa reazione è lodevole, ma quello che sta facendo Werner con i suoi modelli è diverso. Lo scienziato non sta dicendo che le sue ricerche lo hanno spinto a passare all’azione per fermare una particolare legge: le sue ricerche dimostrano che il nostro modello economico mette a rischio la stabilità ecologica e che contrastare questo modello (attraverso l’opposizione di massa) è il modo migliore di evitare la catastrofe. Sono affermazioni drastiche, ma Werner non è solo. Lo studioso fa parte di un gruppo ristretto ma sempre più autorevole di scienziati che hanno fatto ricerche sulla destabilizzazione dei sistemi naturali e sono arrivati a conclusioni rivoluzionarie. A chiunque nutra in cuor suo un impulso di ribellione e abbia sognato di rovesciare l’attuale ordine economico per introdurne uno che non spinga al suicidio i pensionati italiani, questo lavoro dovrebbe risultare particolarmente interessante. Perché dimostra che l’aspirazione a disfarsi di questo sistema spietato per sostituirlo con uno nuovo (e magari, lavorandoci molto, anche migliore) non è più questione di orientamento ideologico, ma è piuttosto una necessità per la sopravvivenza della specie umana.
Alla testa di questo nuovo gruppo di scienziati rivoluzionari c’è uno dei più importanti climatologi britannici: Kevin Anderson, il vicedirettore del Tyndall centre for climate change research. Rivolgendosi a chiunque, dal ministero britannico dello sviluppo internazionale al consiglio comunale di Manchester, Anderson ha dedicato più di dieci anni al paziente tentativo di spiegare a politici, economisti e attivisti le implicazioni degli ultimi risultati della climatologia. Usando un linguaggio chiaro e comprensibile, lo scienziato ha definito una serie rigorosa di passi da compiere per ridurre le emissioni in modo da mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto dei due gradi, un obiettivo che secondo molti governi dovrebbe prevenire la catastrofe. Ma negli ultimi anni gli articoli e le conferenze di Anderson sono diventati più allarmanti. Nei suoi interventi – intitolati per esempio “Mutamento climatico: al di là del pericolo, numeri brutali e tenui speranze” – lo studioso sottolinea che le possibilità di mantenere le temperature entro i limiti di sicurezza si stanno riducendo rapidamente. Insieme alla collega Alice Bows, un’esperta del Tyndall centre che si occupa di mitigazione del clima, Anderson osserva che abbiamo perso tanto tempo tra stalli politici e misure deboli per la gestione del clima (mentre i consumi e le emissioni globali s’impennavano) che ora dovremmo fare tagli così drastici da mettere in discussione la logica stessa che assegna la massima priorità alla crescita del pil. Anderson e Bows ci comunicano che l’obiettivo tanto citato della mitigazione di lungo periodo (ridurre dell’80 per cento le emissioni rispetto ai livelli del 1990 entro il 2050) è stato indicato per motivi di pura convenienza politica e non poggia su “nessuna base scientifica”. Il fatto è che sul clima non esercita un impatto solo quello che emettiamo oggi e domani, ma le emissioni cumulative che con il tempo si raccolgono nell’atmosfera. Inoltre, gli scienziati ci avvertono che concentrandoci su un obiettivo distante trentacinque anni (invece di pensare a quello che si può fare per ridurre le emissioni di anidride carbonica in modo netto e immediato) rischiamo seriamente che le emissioni continuino ad aumentare per anni, mettendoci in una posizione insostenibile per il resto del secolo.
Per questo Anderson e Bows sostengono che se i governi dei paesi sviluppati hanno davvero intenzione di raggiungere l’obiettivo concordato a livello internazionale di mantenere l’innalzamento della temperatura al di sotto dei due gradi centigradi e se vogliono che i tagli rispettino un principio di equità (secondo cui in sostanza i paesi che hanno rilasciato anidride carbonica per buona parte degli ultimi due secoli dovranno ridurre le emissioni prima di quelli in cui più di un miliardo di persone vive ancora senza l’elettricità), allora i tagli dovranno andare molto più a fondo e si dovranno fare molto prima.
Per ottenere anche solo una possibilità del 50 per cento di contenere il riscaldamento climatico entro i due gradi (che, come avvertono Anderson, Bows e molti altri scienziati, implica già una serie di disastri climatici), i paesi industrializzati dovranno ridurre le loro emissioni di gas serra di circa il 10 per cento all’anno in da subito. Ma Anderson e Bows si spingono anche più in là, facendo notare che quest’obiettivo non potrà essere realizzato con le misure di modesta tassazione delle emissioni di anidride carbonica o con le soluzioni di tecnologia verde proposte in genere dalle grandi organizzazioni ambientaliste. Queste strategie non bastano: una riduzione del 10 per cento all’anno è un fenomeno praticamente senza precedenti da quando abbiamo cominciato ad alimentare l’economia con il carbone. In effetti, un calo superiore all’1 per cento all’anno “è stato associato storicamente solo alle recessioni economiche o ai sovvertimenti politici”, spiega l’economista Nicholas Stern nel suo rapporto sui cambiamenti climatici realizzato nel 2006 per il governo britannico.
Neanche in seguito al crollo dell’Unione Sovietica ci sono state riduzioni di questa durata e intensità (gli ex stati sovietici hanno registrato in media un calo del 5 per cento all’anno per un periodo di dieci anni). Né si sono osservati fenomeni simili dopo il crollo di Wall street nel 2008 (nei paesi più ricchi c’è stata una riduzione del 7 per cento circa tra il 2008 e il 2009, ma le loro emissioni sono riprese a pieno ritmo nel 2010 e intanto quelle della Cina e dell’India hanno continuato a crescere). Solo subito dopo il grande crollo del 1929, si apprende dai dati storici del Carbon dioxide information analysis centre, negli Stati Uniti le emissioni diminuirono per alcuni anni a un ritmo superiore al 10 per cento all’anno. Ma quella è stata la peggior crisi economica dell’epoca moderna.
Se vogliamo evitare disastri di quell’entità e raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni indicati dagli scienziati, il taglio della produzione di anidride carbonica dovrà essere gestito, come scrivono Anderson e Bows, con prudenza e attraverso “strategie drastiche e immediate di decrescita negli Stati Uniti, nell’Unione europea e in altri paesi ricchi”. Questo non sarebbe un problema se non fosse che il nostro sistema economico venera la crescita del pil più di qualunque altra cosa, senza riguardo per le conseguenze umane o ecologiche, e che la classe politica neoliberista si è sottratta a qualunque responsabilità (dal momento che il mercato è il genio invisibile a cui va affidato tutto il resto). Secondo Anderson e Bows, quindi, c’è ancora tempo per evitare un riscaldamento catastrofico, ma non con le regole del capitalismo. È forse il miglior argomento che sia mai esistito per sostenere il cambiamento di queste regole.
Difficile ma fattibile
In un saggio del 2012 uscito su Nature Climate Change, un’autorevole rivista scientifica, Anderson e Bows hanno lanciato qualcosa di simile a una sfida, accusando molti colleghi di scarsa trasparenza sulle trasformazioni che il cambiamento climatico impone all’umanità. Vale la pena di citare i due per esteso: “Nell’elaborare previsioni sulle emissioni, gli scienziati minimizzano ripetutamente e gravemente le implicazioni delle loro analisi. Quando si tratta di evitare l’aumento della temperatura di due gradi, ‘impossibile’ diventa ‘difficile ma fattibile’ e ‘urgente e drastico’ si trasforma in ‘impegnativo’. Il tutto per placare il dio dell’economia (o, per la precisione, della finanza). Per esempio, per rispettare il limite di riduzione delle emissioni fissato dagli economisti, si parte dal presupposto che le emissioni hanno toccato picchi ‘impossibilmente’ precoci e si abbracciano idee ingenue sulle tecnologie ‘avanzate’ e le infrastrutture a bassa produzione di anidride carbonica. Ma l’aspetto più preoccupante è che mentre gli stanziamenti per il taglio delle emissioni si riducono, la geoingegneria è proposta sempre più spesso come mezzo per garantire che i diktat degli economisti non siano mai messi in dubbio”. Per sembrare ragionevoli negli ambienti economici neoliberisti, insomma, gli scienziati tengono gravemente in sordina i risvolti delle loro ricerche. Ad agosto Anderson si è espresso in modo ancora più esplicito e ha scritto che ormai la linea adottata mirava al cambiamento graduale.
“Forse nel 1992, all’epoca della conferenza di Rio, o anche all’inizio del nuovo millennio, contenere il riscaldamento climatico entro i due gradi sarebbe stato possibile attraverso una trasformazione graduale in-terna al sistema politico ed economico do-minante. Ma il mutamento climatico è un fenomeno cumulativo. Ora, nel 2013, i paesi (post)industriali, che hanno alte emissioni di gas serra, si trovano di fronte a una prospettiva molto diversa. Il nostro sperpero continuato e collettivo di anidride carbonica ha annientato tutte le possibilità di ‘trasformazione graduale’ offerte dal precedente budget di anidride per il contenimento del riscaldamento entro i due gradi.
Oggi, dopo vent’anni di blu e menzogne, il budget che ci resta impone un cambiamento rivoluzionario del sistema politico ed economico dominante”.
Probabilmente non dovremmo sorprenderci del fatto che alcuni climatologi siano un po’ spaventati dalle conseguenze drastiche dettate dalle loro stesse ricerche. Questi studiosi si occupavano quasi tutti semplicemente di misurare carote di ghiaccio, di elaborare modelli climatici globali e di studiare l’acidificazione degli oceani. Ma a un certo punto, per citare l’esperto australiano di clima Clive Hamilton, hanno scoperto che “stavano involontariamente destabilizzando l’ordine politico e sociale”.
Molti altri, tuttavia, sono consapevoli della natura rivoluzionaria della climatologia. Per questo alcuni governi che avevano deciso di mettere da parte i loro impegni sul clima e di continuare a produrre anidride carbonica sono stati costretti a usare metodi ancora più scellerati per ridurre al silenzio e intimidire gli scienziati del loro paese.
Nel Regno Unito questa strategia è sempre più evidente. Di recente Ian Boyd, capo consulente scientifico del ministero dell’ambiente, dell’alimentazione e degli affari rurali, ha scritto che gli scienziati dovrebbero evitare di “affermare che determinate misure politiche sono giuste o sbagliate” e dovrebbero esprimere le loro opinioni “collaborando con consulenti interni (come me) e ponendosi come voci della ragione e non del dissenso”.
Un finto funerale
Se volete sapere dove porterà tutto questo, pensate a quello che sta succedendo in Canada, il paese dove abito. Il governo conservatore di Stephen Harper è stato così efficace nel suo tentativo di imbavagliare gli scienziati e di bloccare i progetti di ricerca più importanti, che nel luglio del 2012 un paio di migliaia di ricercatori e comuni cittadini ha celebrato un finto funerale sulla collina del parlamento a Ottawa per annunciare “la morte dei fatti scientifici”. Sui loro cartelli era scritto: “Niente scienza, niente fatti, niente verità”.
Ma la verità sta venendo a galla comunque. Per sapere che la ricerca del profitto e della crescita sta destabilizzando la vita sulla Terra non bisogna più leggere le riviste scientifiche. I primi segnali sono di fronte ai nostri occhi. E sempre più persone stanno reagendo di conseguenza con un numero incalcolabile di azioni di resistenza grandi e piccole: bloccando le attività di estrazione basate sul fracking a Balcombe, in Inghilterra, interferendo con i preparativi per le trivellazioni nell’Artico in acque russe (prendendo rischi enormi per la propria vita) o denunciando le aziende che lavorano le sabbie bituminose per aver violato la sovranità delle popolazioni indigene.
Nel modello elaborato da Brad Werner è questa la “frizione” necessaria a rallentare le forze di destabilizzazione: il grande attivista per la salvaguardia del clima Bill McKibben li definisce “anticorpi” che si attivano per contrastare la “febbre alta” del pianeta. Non è una rivoluzione, ma è un inizio. E potrebbe farci guadagnare il tempo che serve per trovare un modo di vivere sul pianeta senza restare troppo f ***uti.
Fonte: http://internazionaledicarruzzu.blogspot.it/2013/11/1028-inchiesta-un-clima-rivoluzionario.html
Rivolte Verdi
di di Michael T. Klare, dal num.1028 di Internazionale p.46, 29 novembre 2013, http://www.internazionale.it
Come dimostra l’esperienza di Fukushima, in futuro sempre più movimenti di protesta nasceranno intorno a questioni legate al clima e all’ambiente.
I capi di governo dovrebbero stare in guardia dopo che il tifone più potente della storia ha ridotto in ginocchio le Filippine e dopo che una devastante “apocalisse atmosferica” ha soffocato la città cinese di Harbin con l’inquinamento delle centrali a carbone. Anche se non è possibile ricondurre con certezza assoluta questi episodi al crescente impiego di combustibili fossili e al cambiamento climatico, queste catastrofi, a quanto ci dicono gli scienziati, diventeranno parte integrante della vita del pianeta a causa delle trasformazioni prodotte dal consumo intensivo di combustibili ad alta emissione di anidride carbonica. Se, come sta succedendo, i governi di tutto il mondo prolungheranno l’era dell’anidride carbonica e rafforzeranno la dipendenza da combustibili fossili “non convenzionali” come le sabbie bituminose e il gas da argille, aspettiamoci di finire nei guai. O meglio ancora: aspettiamoci una serie di insurrezioni popolari che porteranno a una rivoluzione per l’energia pulita. Nessuno può prevedere il futuro, ma è possibile farsi un’idea dei rivolgimenti che ci attendono pensando agli avvenimenti del presente. Via via che la popolazione prende coscienza del cambiamento climatico e che le alluvioni, gli incendi, le siccità e le tempeste sempre più violente diventa-no una componente inevitabile della vita quotidiana, un numero crescente di perso-ne aderisce a organizzazioni ambientaliste e partecipa ad azioni di protesta sempre più clamorose. È probabile che prima o poi i capi di governo dovranno affrontare diverse rivolte popolari, e alla fine saranno costretti ad apportare modifiche sostanziali alla politica energetica. In effetti è possibile immaginare che una rivoluzione per l’energia pulita possa scoppiare in una zona del mondo e poi allargarsi a macchia d’olio alle altre. Dato che il cambiamento climatico infliggerà danni sempre più gravi alle persone, è plausibile che l’impulso a ribellarsi si accentui su scala mondiale. Le circostanze potranno variare, ma lo scopo principale di queste insurrezioni sarà quello di mettere fine al dominio dei combustibili fossili e di intensificare gli investimenti nelle fonti di energia rinnovabili. E se questi movimenti avranno successo in un luogo, incoraggeranno altre persone a imitarli.
Una simile ondata di rivolte consecutive non sarebbe senza precedenti. Nei primi anni duemila, per esempio, in diversi paesi dell’ex Unione Sovietica un governo dopo l’altro è stato spazzato via da quelle che so-no passate alla storia come “rivoluzioni colorate”: insurrezioni populiste contro i vecchi regimi autoritari. Si fanno rientrare in questo fenomeno la “rivoluzione delle rose” in Georgia (2003), la “rivoluzione arancione” in Ucraina (2004) e la “rivoluzione dei tulipani” in Kirghizistan (2005).
Nel 2011 una serie di proteste simili c’è stata in Nordafrica, culminando in quella che è stata chiamata “primavera araba”.
Come nei casi precedenti, anche in quello di una “rivoluzione verde” difficilmente l’impulso verrà da una campagna politica strutturata e con dei leader chiaramente identificabili. Con ogni probabilità il movimento nascerà in modo spontaneo quando le catastrofi causate dal cambia-mento climatico provocheranno un’esplosione di rabbia collettiva. Una volta innescate, però, le proteste metteranno sotto pressione i governi, pretendendo un cambiamento profondo sull’energia e sul clima.
In questo senso tutte le sollevazioni, qualunque forma assumano, si dimostreranno “rivoluzionarie”, dal momento che punte-ranno a cambiamenti politici così grandi da mettere in dubbio l’esistenza stessa dei governi in carica o da costringerli a decidere trasformazioni radicali.
I segni di questo processo si possono già osservare. Si pensi alle proteste ambienta-liste scoppiate in Turchia a giugno. Anche se erano nate intorno a un problema di scala decisamente più ridotta rispetto alla devastazione planetaria causata dal cambia-mento climatico, per un certo periodo han-no rappresentato una grave minaccia per il primo ministro Recep Tayyip Erdoğan e per il suo partito. Alla fine il governo è riuscito a reprimere le manifestazioni, ma la reputazione di islamico moderato di Erdoğan è stata compromessa gravemente.
Come molte rivoluzioni, la ribellione turca è cominciata in sordina: il 27 maggio 2013 un piccolo gruppo di ambientalisti ha bloccato le ruspe inviate dal governo per radere al suolo il parco Gezi, una minuscola oasi verde nel cuore di Istanbul, e fare spazio alla costruzione di un centro commerciale di lusso. Il governo ha ordinato alle truppe antisommossa di sgombrare l’area, ma la decisione ha fatto infuriare molti turchi e ha spinto decine di migliaia di persone a occupare la vicina piazza Taksim. Questa mossa ha portato a sua volta a un giro di vi-te ancora più brutale e quindi a enormi manifestazioni a Istanbul e in tutto il paese. Le proteste di massa sono scoppiate in settanta città: l’espressione di malcontento più vasta da quando Erdoğan è andato al pote-re nel 2002. È stata, nel senso più letterale del termine, una rivoluzione “verde”, scatenata dall’attacco sferrato dal governo all’ultimo spazio verde nel centro di Istanbul. Ma quando la polizia è intervenuta con tutta la sua forza, l’iniziativa si è trasformata in una critica severa degli impulsi autoritari di Erdoğan e della sua aspirazione a trasformare la città in un’attrazione turistica neo-ottomana, eliminando i quartieri poveri e gestendo in modo sconsiderato gli spazi pubblici come piazza Taksim. Questa evoluzione (da una protesta ambientalista di scala ridotta a una sfida a tutto tondo all’autorità del governo) si ritrova in altre proteste popolari degli ultimi anni.
Nell’ottobre del 2012, in Cina, gli studenti e i cittadini della classe media si sono uniti alla protesta degli agricoltori poveri contro la costruzione di uno stabilimento petrol-chimico da 8,8 miliardi di dollari a Ningbo, una città con 3,4 milioni di abitanti a sud di Shanghai. In un paese dove l’inquinamento ha raggiunto livelli quasi impossibili, queste proteste sono state causate dal timore che l’impianto producesse paraxilene, una sostanza tossica impiegata nella fabbricazione di plastica, vernici e solventi.
Anche in questo caso la scintilla che ha fatto scoppiare le proteste era minuscola. Il 22 ottobre 2012 un paio di centinaia di agricoltori ha bloccato una strada nel tentativo impedire la costruzione dello stabili-mento. Quando la polizia è stata inviata a disperdere la folla, gli studenti della vicina università si sono uniti alla protesta. Scrivendo sui social network, i manifestanti hanno ottenuto il sostegno dei cittadini della classe media, che si sono radunati a migliaia nel centro della città. Quando le truppe antisommossa sono intervenute per sgomberare l’assembramento, i manifestanti hanno risposto all’attacco avventandosi contro le auto della polizia e lanciando mattoni e bottiglie d’acqua. Alla fine le forze dell’ordine hanno avuto la meglio dopo giorni di scontri violenti, ma il governo cinese ha capito che quell’iniziativa popolare, avvenuta nel cuore di una città importante e voluta da un’alleanza di studenti, agricoltori e giovani professionisti, era un pericolo eccessivo. Dopo cinque giorni di contrapposizione il governo ha ceduto, ritirando il progetto dell’impianto petrolchimico.
Le manifestazioni di Ningbo non sono state le prime di questo tipo in Cina. Tuttavia hanno messo in luce la crescente vulnerabilità del governo di fronte alle proteste ambientaliste di massa. Da decenni il Partito comunista cinese giustifica il suo monopolio del potere con il successo ottenuto nel garantire una rapida crescita economica. Ma questo sviluppo comporta un uso sempre maggiore di combustibili fossili e prodotti petrolchimici, che a sua volta produce un aumento delle emissioni di anidride carbonica e un disastroso inquinamento atmosferico. Fino a poco tempo fa i cinesi sembravano accettare queste condizioni come effetti inevitabili della crescita, ma a quanto pare la tolleranza nei confronti del degrado ambientale si sta riducendo rapidamente. Di conseguenza Pechino si trova davanti a un dilemma: può rallentare lo sviluppo per decontaminare l’ambiente, ma con il rischio di un progressivo malcontento economico, oppure può continuare con la crescita a ogni costo ed essere travolto da un vortice di proteste come quella di Ning bo.
Germania e Giappone
Questo dilemma è al centro di rivolte simili scoppiate in altri luoghi del pianeta. Due casi, uno in Germania e l’altro in Giappone, sono legati all’incidente nucleare di Fukushima dell’11 marzo 2011, causato dal violento tsunami che aveva colpito il nord del Giappone. In entrambi i casi sono stati messi in discussione il futuro dell’energia nucleare e i governi in carica.
Le azioni più imponenti si sono svolte in Germania. Il 26 marzo 2011, 250mila persone hanno partecipato alle manifestazioni contro il nucleare in tutto il paese: centomila a Berlino e quarantamila ad Amburgo, Monaco e Colonia. “Le manifestazioni di oggi sono il preludio di un nuovo e forte movimento antinucleare”, ha detto Jochen Stay, uno dei promotori dell’iniziativa.
“Non ci fermeremo finché le centrali non saranno messe sotto naftalina”. In gioco c’era il destino delle ultime centrali nucleari attive in Germania. Anche se viene spacciata come alternativa interessante ai combustibili fossili, l’energia atomica è considerata pericolosa da molti tedeschi. Alcuni mesi prima dell’incidente di Fukushima la cancelliera Angela Merkel aveva insistito per tenere in funzione fino al 2040 i diciassette reattori ancora in attività nel paese, attuando una transizione graduale alle energie rinnovabili. Subito dopo l’incidente di Fukushima, però, Merkel ha ordinato la chiusura temporanea dei sette reattori più vecchi per fare delle ispezioni di sicurezza, ma non ha voluto spegnere gli altri. In questo modo ha provocato un’ondata di proteste, di fronte alle quali, complice anche una sconfitta elettorale nell’importante land del Baden-Württemberg, la cancelliera è arrivata alla conclusione che impuntarsi sarebbe stato un suicidio politico. Il 30 maggio ha annunciato che i sette reattori sotto ispezione sarebbero stati chiusi definitivamente e che gli altri dieci sarebbero stati disattivati entro il 2022.
Nessuno nega che la decisione di sbarazzarsi gradualmente dell’energia nucleare con quasi vent’anni d’anticipo si ripercuoterà in modo significativo sull’economia tedesca. Secondo le stime, la chiusura dei reattori e la loro sostituzione con l’energia eolica e solare costerà 735 miliardi di dollari e richiederà diversi decenni, provocando un’impennata delle tarife elettriche, oltre a crisi energetiche periodiche.
Tuttavia, l’ostilità al nucleare in Germania è così forte che Merkel ha ritenuto di non avere altra scelta se non quella di disattiva-re comunque i reattori.
In Giappone le proteste contro il nucleare sono cominciate molto dopo, ma non sono state meno rilevanti. Il 16 luglio 2012, sedici mesi dopo la catastrofe di Fukushima, 170mila persone hanno protestato a Tokyo contro il piano del governo di rimettere in funzione i reattori nucleari, bloccati dopo l’incidente. Oltre a essere stata la manifestazione antinucleare più imponente organizzata in Giappone da anni, si è trattato anche della protesta più imponente nella storia recente del paese.
Per il governo l’iniziativa del 16 luglio ha rivestito un rilievo particolare. Prima di Fukushima la maggioranza dei giapponesi era favorevole all’energia nucleare e coni-dava nella capacità dello stato di garantirne la sicurezza. Dopo l’incidente e i disastrosi tentativi di affrontare la situazione compiuti dalla proprietaria dell’impianto, la Tokyo Electric Power Company (Tepco), il sostegno dell’opinione pubblica all’energia atomica ha toccato i minimi storici. Quando è diventato sempre più chiaro che il governo aveva gestito la crisi in modo inadeguato, la popolazione ha perso la fiducia nella sua capacità di esercitare un controllo efficace sul settore nucleare. Le ripetute promesse sulla possibilità di mettere in sicurezza i reattori hanno perso credibilità quando si è scoperto che alcuni funzionari pubblici avevano collaborato a lungo con i dirigenti della Tepco per liquidare le preoccupazioni sulla sicurezza di Fukushima e, in seguito all’incidente, per tenere segrete le informazioni sulla vera portata della catastrofe e delle sue conseguenze per la salute umana.
La manifestazione del 16 luglio e altre iniziative simili dovrebbero essere lette come un voto pubblico di siducia nei confronti della politica energetica e delle capacità di supervisione dello stato.
“Finora i giapponesi non si sono espressi contro il governo nazionale”, ha affermato una manifestante, una casalinga di 29 anni scesa in piazza con il figlio di un anno. “Ora dobbiamo far sentire la nostra voce, altrimenti il governo ci metterà tutti in pericolo”.
Lo scetticismo nei confronti dello stato, un fenomeno raro nel Giappone del ventunesimo secolo, ha ostacolato in modo consistente il progetto del governo di riattivare i cinquanta reattori chiusi temporaneamente in tutto il paese. Anche se molti giapponesi sono contrari all’energia nucleare, il primo ministro Shinzō Abe resta deciso a rimettere in funzione le centrali per ridurre la forte dipendenza del Giappone dall’importazione di energia elettrica e per promuovere la crescita economica. “In questa fase”, ha dichiarato il premier a ottobre, “mi sembra impossibile promettere l’eliminazione delle centrali nucleari. Dal punto di vista del governo, le centrali atomiche sono molto importanti per stabilizzare la produzione di elettricità e le attività economiche”. Ma, nonostante questa posizione, Abe sta facendo molta fatica a ottenere il sostegno per i suoi piani ed è lecito dubitare che un numero consistente di quei reattori sarà ricollegato presto alla rete elettrica.
Perdere il potere
Da questi episodi si può dedurre che in tutto il mondo i cittadini sono sempre più preoccupati per la politica energetica e per le sue conseguenze, e sono pronti, spesso con un preavviso minimo, a partecipare a proteste di massa. Allo stesso tempo i governi di tutto il pianeta restano fedeli, con rare eccezioni, alla politica energetica già definita. Questo li trasforma quasi invariabilmente in bersagli, a prescindere dal motivo iniziale che ha dato impulso al movimento d’opposizione. Man mano che le conseguenze del cambiamento climatico diventano più devastanti, i funzionari pubblici si troveranno costretti a scegliere tra i progetti energetici già decisi in passato e la possibilità di perdere il potere.
Dato che solo pochi paesi sono pronti a realizzare le misure che permetterebbero di cominciare ad affrontare il pericolo del cambiamento climatico, i governi saranno considerati sempre più spesso degli ostacoli a un cambiamento sostanziale e quindi degli elementi da eliminare. Insomma, la ribellione ambientalista (una serie di proteste spontanee che potrebbero trasformarsi in qualunque istante in movimenti di massa inarrestabili) è alle porte. Di fronte a queste rivolte, i governi reagiranno in parte accogliendo le rivendicazioni popolari e in parte con una dura repressione.
Questi sviluppi metteranno a rischio molti governi, ma a quanto pare i più vulnerabili saranno i vertici cinesi. Per garantirsi un futuro, il partito che governa la Repubblica Popolare Cinese ha puntato su un programma di crescita continua, alimentata dai combustibili fossili, che sta distruggendo progressivamente l’ambiente. La Cina ha già assistito a cinque o sei sollevamenti ambientalisti come quello di Ningbo, e lo stato ha reagito cedendo alle richieste dei manifestanti oppure usando la forza. La questione è quanto si possa continuare ad andare avanti in questo modo. Le condizioni dell’ambiente sono destinate a peggiorare, soprattutto se la Cina continuerà a usare il carbone per il riscaldamento delle case e per la produzione di energia elettrica. Eppure, nessun segnale lascia pensare che il Partito comunista sia pronto a compiere i drastici passi necessari per ottenere una riduzione consistente del consumo domestico di carbone. Data la situazione, è possibile che in qualunque momento in Cina scoppino proteste popolari di portata potenzialmente senza precedenti. A loro volta, queste manifestazioni potrebbero mettere in discussione l’esistenza stessa del partito: uno scenario che di certo produce un’ansia enorme tra gli alti dirigenti di Pechino.
Contro il fracking
E che dire degli Stati Uniti? Sarebbe ridicolo affermare che a causa dei disordini i vertici politici del paese rischiano di essere spazzati via o di essere costretti a passare seriamente all’azione per ridimensionare la dipendenza dai combustibili fossili. Tuttavia, anche negli Stati Uniti si osservano segni di una crescente opposizione popolare ad alcuni aspetti dell’uso di queste fonti energetiche, come le accese proteste contro la tecnica di estrazione del fracking e contro l’oleodotto per le sabbie bituminose Keystone Xl. Secondo lo scrittore e militante ambientalista Bill McKibben, tutti questi elementi sono gli indizi che sta nascendo un movimento di massa contro il consumo di combustibili fossili. “Negli ultimi anni”, ha scritto McKibben, questo movimento “ha bloccato l’edificazione di decine di centrali elettriche a carbone, si è battuto contro il piano dell’industria petrolifera di costruire l’oleodotto Keystone Xl, ha convinto un gran numero di istituzioni statunitensi a disfarsi dei titoli legati alle aziende dei combustibili fossili e ha contrastato progetti come lo spianamento delle vette montuose per l’estrazione di carbone e l’impiego del fracking per la produzione di gas naturale”. Queste campagne non avranno ancora ottenuto lo stesso successo del movimento per il matrimonio gay, ha osservato l’attivista, ma “stanno crescendo in fretta e cominciano a conseguire alcune vittorie”.
Anche se è troppo presto per fare previsioni sul futuro di questo movimento contro l’emissione di anidride carbonica, sembra però che le proteste stiano acquistando forza. Alle elezioni del 2013, per esempio, Boulder, Fort Collins e Lafayette (tre città del Colorado, uno stato ricco di fonti energetiche) hanno votato per mettere al bando o stabilire una moratoria sul fracking nel loro territorio, e intanto le proteste contro il Keystone Xl e altri progetti simili si stanno intensificando. Nessuno può dire con certezza se la rivoluzione per l’energia pulita ci sarà, ma chi può negare che le proteste ambientaliste incentrate sulla questione energetica negli Stati Uniti e in altri paesi possano trasformarsi in qualcosa di molto più grande? Come la Cina, nei prossimi anni anche gli Stati Uniti subiranno gravi danni a causa del mutamento climatico e del loro incrollabile legame con i combustibili fossili.
Gli statunitensi non sono in genere persone passive. Aspettiamoci che, come i cinesi, anche loro reagiscano a questi pericoli con collera crescente e con una forte determinazione a cambiare la politica del governo. Quindi non sorprendiamoci se la rivoluzione per l’energia pulita scoppierà nel nostro quartiere: è la reazione dell’umanità al rischio più grave che abbiamo mai dovuto affrontare. Se i governi non passeranno all’azione per salvare il pianeta, qualcun altro ci penserà.
Fonte: http://internazionaledicarruzzu.blogspot.it/2013/11/1028-inchiesta-un-clima-rivoluzionario.html
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Articolo purtroppo interessante e ricco di spunti (magari un po’ lunghetto, ma bello comunque). Le prove che ci stiamo fottendo il pianeta lasciandolo in pessime condizioni ai nostri figli ci sono, eccome se ci sono… Spero non ti offenderai se ribloggo il tuo articolo sul mio blog, e penso di tornare a visitare il tuo altre volte. Saluti, Mirko
L’ha ribloggato su http://www.baffostanco.net.
Ciao Mirko! ti ringraziamo di aver ribloggato questo interessante articolo!!